Papusza, la ninfa del bosco che raccontò il mondo rom
Guardo qui, guardo là –
tutto ondeggia! Il mondo ride!
Un mare di stelle di notte!
Ciarlano, ammiccano, brillano.
(Da Guardo qui, guardo là, di Papusza, traduzione italiana di Paolo Statuti)
di Alex Gisondi
Questa è la storia di una poetessa involontaria. Una poetessa rom (o romanì) nata e cresciuta in Polonia. La più celebre poetessa rom del Dopoguerra, i cui versi sono ancora oggi poco noti in Italia. Si chiamava Bronisława Wajs, ma per tutti era Papusza, che in lingua rom significa bambolina.
Nata nel 1908 o nel 1910 durante una sosta del tabor (carro) della sua kumpania (aggregazione di famiglie) a Lublino, Papusza non ha una vita facile. Viene venduta in sposa a 15 anni dalla famiglia a un uomo molto più grande di lei. Due anni prima ha imparato a leggere e scrivere da autodidatta. La lettura è la vera passione di Papusza: giornali, opuscoli, manifesti, libri, qualsiasi cosa scritta in polacco le capiti in mano, a dispetto dello scherno e il disprezzo dei membri della sua kumpania. Avere qualcosa con e su cui scrivere, invece, è un’altra faccenda. Ecco perché Bronisława Wajs farà sempre fatica con lo spelling e la grammatica. A volte si dimentica le sillabe, a volte confonde le lettere o le inverte. Non importa: i pensieri stupendi che si formano nella sua testa troveranno altri modi di essere apprezzati e qualcuno che saprà trascriverli per farli conoscere. Papusza trascorre i primi trent’anni della propria vita sempre in movimento e sempre in Polonia. Durante la Seconda Guerra Mondiale assieme alla sua famiglia di virtuosi dell’arpa, si nasconde nei boschi ucraini della Volinia, per sfuggire alle persecuzioni naziste. Una scelta che le salva la vita, al contrario della sorte toccata a 35.000 rom polacchi, vittime del Samudaripen, la Shoah di rom e sinti di cui abbiamo parlato. Rientrata in Polonia, Papusza conduce una vita girovaga e grama, allietata dalla musica e dal canto.
Nel 1949 avviene l’incontro destinato a cambiare la vita di Papusza: il poeta, traduttore ed etnologo polacco Jerzy Ficowski, che da un anno vive insieme alla sua comunità romanès e ha appreso la lingua romanì, ascolta una delle sue ballate. Ficowski resta ammaliato dalla bellezza di quei versi e ritiene che anche i non rom debbano conoscerle. Il poeta convince Papusza a trascrivere alcuni di quei testi e inizia a tradurli in polacco. Le ballate di Bronisława Wajs appaiono nel 1950 sotto forma di versi sulle colonne della rivista polacca Problemy, grazie anche all’incoraggiamento del celebre poeta di origine ebraica Julian Tuwim.
La pubblicazione delle poesie di Papusza, accompagnata da un mini glossario polacco-romanì curato da Ficowski che nel 1955 fa uscire la sua monografia dedicata agli zingari polacchi. L’anno seguente è la volta de Le canzoni di Papusza (‘Pieśni Papuszy’) la prima raccolta di poesie dell’autrice, tradotte dallo stesso Ficowski. Nel recensire il libro, il futuro premio Nobel 1996 per la letteratura Wisława Szymborska scrive:
“Dove sono in queste canzoni gli orpelli folkloristici, le predizioni, le maledizioni, i riti magici, le misteriose notti di luna? Esotismo? Sì, certo, esotismo, ma lo troviamo solo là dove la poetessa parla del bosco, del sole, degli uccelli. Questa intimità con il bosco che esprimono le sue canzoni non si trova nella poesia popolare polacca”
La sua seconda raccolta, Canzoni parlate (‘Pieśni mówione’) esce nel 1973 e contiene una manciata di nuovi scritti. Saranno i suoi ultimi inediti. Dopo anni trascorsi in precarie condizioni psicofisiche, vedova, Papusza si spegne nel 1987 a Inowrocław. Le sue pubblicazioni non piacciono alla sua gente che la fa ”scomunicare” dal Baro Shero, l’anziano massima autorità dei rom polacchi. Papusza è dichiarata “impura” ed espulsa dalla sua comunità. La sua colpa? l’incomprensione dei suoi scritti. La società romanì pensava che Papusza volesse promuovere la sedentarietà( esprimendo il concetto del ‘ritorno a casa’ ma in senso spirituale, quel luogo dell’anima in cui ognuno si sente a proprio agio), in più, viene accusata di essere una traditrice che svende i segreti e le tradizioni della propria gente ai non-rom. Dell’intera produzione orale e scritta di Papusza restano oggi appena 26 testi. Fu purtroppo la poetessa stessa a dare alle fiamme il grosso della sua opera (si dice 150 poesie) nello sconforto seguito alla sua espulsione dalla comunità romanì. In Polonia i versi di Papusza cadono per anni in un relativo oblio, ma la poetessa non viene mai del tutto dimenticata. la riscoperta vera e propria di Papusza presso il grande pubblico polacco avviene nel 2013. Prima l’editore Czarne pubblica l’atipico reportage biografico Papusza. Poi tocca all’omonimo film dei cineasti Joanna e Krzysztof Krauze ripercorrere gli eventi della vita della poetessa. Oggi l’eredità di Papusza e della sommersa tradizione romanès è ancora viva in Polonia, nonostante le recenti derive nazionaliste del Paese centro-est europeo e a Varsavia si trova persino un piccolo museo dedicato a Papusza e alla cultura romanì.In Italia si pubblicano i primi testi di Papusza già nel ’68 sulla rivista Lacio Drom.
Una vicenda, quella di Papusza, che oggi merita di essere conosciuta, per imparare e leggere un intero popolo che giustamente pretende di essere visto con occhi diversi.
Fonti e approfondimenti :
https://musashop.wordpress.com/tag/papusza-tradotta-da-paolo-statuti/
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