Rom e intercultura: verso la giustizia sociale
Di Camilla Bernardini
Possiamo affermare che non esiste una cultura rom omogenea; a comunità diverse corrispondono culture diverse. L’unico tratto comune è la lingua e la modalità di inserimento nella popolazione maggioritaria.
È caratteristica di tutti i rom una forte resistenza identitaria messa in atto attraverso varie strategie, ad esempio, attraverso la solidarietà tra la famiglia e la comunità di appartenenza, ma non verso la più ampia comunità ma anche attraverso la strategia del mantenimento di una scarsa visibilità sociale.
Un’altra caratteristica è l’ingegneria culturale, ovvero, una modalità cognitiva basata sull’appropriazione degli elementi presenti nell’ambiente in cui i rom si insediano, creativamente sintetizzati in una nuova e personale visione usata per distinguersi. I rom, infatti, non creano nuovi elementi culturali ma trasformano quelli già esistenti nel mondo “gagé”, sottraendo così valore alle cornici di senso della popolazione maggioritaria.
Ne deriva che la cultura rom, forse più delle altre è in continuo divenire, aperta, localizzata, mutevole e sempre influenzata dalle politiche dei gagé. Insomma, la loro cultura è intercultura, data cioè dal confronto con l’alterità e dal meticciamento.
Nonostante ciò, gli Stati europei ancora oggi trattano in modo simile gli immigrati ed i rom, con politiche di reclusione ed espulsione. L’intercultura, infatti, ha prodotto una vasta letteratura scientifica ma si è occupata poco dei rom e sinti, probabilmente a causa della loro complessità che non li rende culturalmente omogenei e riconducibili ad una precisa identità nazionale. La parola d’ordine dell’intercultura è stata per molti anni l’integrazione, processo al quale i rom hanno cercato di sottrarsi. Il termine integrazione è errato perché prevede che sia responsabilità del gruppo minoritario il processo di inserimento all’interno del gruppo maggioritario. Si tratta di un processo di normalizzazione: la società maggioritaria è considerata normale e non deve fare niente, deve solo aspettare che l’altro gruppo completi il percorso che li porterà ad essere come loro. Inoltre, il concetto di integrazione è ambiguo. Sayad fa notare come delle condizioni di vita decenti sono descritte come effetto di una riuscita integrazione ma in realtà l’avere un alloggio, un impiego, un’istruzione sono le condizioni che permettono l’integrazione, offrendo la possibilità di interagire con il resto della società.
Per finire l’integrazione prevede un passaggio tra un prima e un dopo, quindi la distinzione tra un “noi” e un “loro”. è una soglia: prima non si è integrati, dopo lo si è e si entra a far parte del “noi”. Quello che è davvero necessario perseguire dunque, non è l’integrazione bensì, la giustizia sociale e la reciprocità relazionale. C’è bisogno di pensare ad un’intercultura che permetta ai gruppi di accedere a una nuova condizione di vita socioculturale in modo attivo, senza dover perdere le proprie radici.
Bibliografia
G. Burgio, Tra noi e i rom. Identità, conflitti, intercultura, Milano, FrancoAngeli, 2015.
E. Justin, L. Bravi (a cura di), I destini dei bambini zingari. Educati in modo estraneo alla loro razza, Milano, FrancoAngeli, 2018.
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